Non tutto ciò che è naturale è salutare: Rischi di...

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NON TUTTO CIÒ CHE È NATURALE È SALUTARE: RISCHI DI INTOSSICAZIONE ALIMENTARE CONNESSI ALLA RACCOLTA DI ERBE SPONTANE DA UTILIZZARE IN CUCINA 

Sclopìt, ardielùt, urticjon, confenon, radicèla, rusculins, barbe di bec, pêl di mus, radic di mont… queste sono solo alcune delle erbe selvatiche che in un passato non troppo lontano i nostri nonni e antenati sfruttavano come importante fonte di nutrimento.

Esattamente come in tante altre parti d’Italia, la raccolta di erbe spontanee da utilizzare in cucina era infatti un’abitudine molto diffusa in Friuli Venezia Giulia. A partire dal momento del disgelo fino a primavera inoltrata, le donne e i bambini dedicavano molto tempo alla ricerca di germogli e di piantine appena spuntate. La capacità di riconoscere e distinguere le specie e le varietà di erbe commestibili era parte integrante del bagaglio culturale popolare e veniva tramandata di generazione in generazione.

Col passare degli anni l’industrializzazione, il benessere economico, l’aumento della quantità e qualità dei servizi ha certamente portato ad un miglioramento delle condizioni di vita. Tuttavia ciò ha anche determinato delle gravi conseguenze spesso sottovalutate tra cui lo sfruttamento improprio del territorio e delle risorse naturali e la perdita di usi, costumi e tradizioni secolari. Poche sono infatti le persone che al giorno d’oggi sanno riconoscere le piante che crescono nelle nostre campagne e nei nostri boschi e che un tempo si cercavano e raccoglievano attivamente.

Raccogliere erbe selvatiche, bacche, frutti e funghi nel silenzio del bosco o in mezzo ai prati fioriti rappresenta una bella emozione nonché un salutare esercizio all’aria aperta. Una volta a casa anche la trasformazione di ciò che si è raccolto in deliziosi piatti permette un riavvicinamento e un ritorno alla “natura”. Tuttavia la ricerca di queste belle sensazioni può esporre gli improvvisati raccoglitori di erbe e piante a rischi anche molto elevati, che arrivano a pagare il prezzo della disinformazione e della mancata esperienza con intossicazioni ad esito talora fatale.

Si pensi ad esempio ad alcuni recenti fatti di cronaca: ai coniugi settantenni deceduti per avere consumato un risotto cucinato con un fiore tossico (Colchicum autumnale) scambiato per zafferano selvatico (Crocus sativus) e all’intera famiglia che è finita in ospedale per intossicazione dopo aver mangiato una confezione di spinaci che conteneva erroneamente un’erba infestante velenosa, la mandragora.

Per sensibilizzare la popolazione sui rischi connessi all’ingestione di alimenti contaminati o contenenti tossine naturali che possono essere molto pericolose per la salute umana il Centro Antiveleni di Milano, l’ATS della Brianza e l’IZSLER, in collaborazione con il Ministero della Salute, la Regione Lombardia e l’Ospedale Niguarda, hanno pubblicato nel 2016 una guida dal titolo “Le intossicazioni alimentari da tossine naturali: guida al riconoscimento e alla prevenzione

(tratto da: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2537_allegato.pdf).

 Tale pubblicazione chiarisce quali alimenti in natura possono essere dannosi per la salute (piante, funghi, pesci, etc) e fornisce suggerimenti su come comportarsi in caso di intossicazione.

Nell’autunno 2017 anche il CeIRSA – Centro interdipartimentale per la ricerca sulla sicurezza alimentare della Regione Piemonte – ha pubblicato online un interessante opuscolo informativo sulle intossicazioni alimentari causate da tossine naturali presenti nei vegetali (tratto da: http://www.ceirsa.org/leggitutto.php?idrif=812).

Con l’aiuto e il riferimento delle due guide sopracitate si riportano qui di seguito alcuni brevi consigli su come riconoscere alcune tra le piante più ricercate ed utilizzate nella cucina tradizionale friulana, su come identificare e non scambiare per commestibili alcuni dei vegetali più pericolosi e su come comportarsi in caso di sospetto avvelenamento.

Preme ricordare come il presente documento rappresenti una semplice guida illustrativa e che solo il riconoscimento botanico da parte di un esperto sia fondamentale ed indispensabile per una effettuare una corretta valutazione del rischio tossicologico nei casi di ingestione di un vegetale non ben conosciuto. È bene quindi non improvvisarsi raccoglitori di erbe senza conoscerle a fondo per evitare di correre il rischio di mettere nel piatto specie velenose, talora mortali, di aspetto molto simile a quelle commestibili. È consigliabile avvicinarsi all’attività di raccolta delle erbe selvatiche frequentando corsi specifici in materia, preferibilmente con uscite pratiche sul campo, e limitarsi all’inizio a distinguere e riconoscere in maniera sicura poche specie per volta.

Riconoscere le specie più ricercate ed utilizzate nella cucina tradizionale friulana.

Qui di seguito si riportano alcune tra le più ricercate ed apprezzate erbe spontanee tipiche della tradizione friulana. Si coglie l’occasione per ricordare che per impedire la raccolta indiscriminata di tali erbe in Friuli Venezia Giulia è stata emanata una legge regionale (L.R. n.9 del 23 aprile 2007 e successive modifiche) che fissa periodi e limiti quantitativi di raccolta diversi a seconda delle varie specie. È importante infatti avvicinarsi alla natura con profondo rispetto lasciando la possibilità anche alle future generazioni di conoscerne ed apprezzarne i doni.

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Silene (Silene vulgaris)

silene

Piccola pianta perenne erbacea nota in alcune zone con il termine sclopìt per il rumore che si produce schiacciando il fiore tra le mani, mentre in altre aree viene chiamata grisolò, grisulò, grisu, grisel per il colore tendente al grigio argenteo delle foglie. La parte commestibile della pianta è rappresentata dalle foglie basali che devono essere raccolte prima del periodo della fioritura poiché dopo tendono a diventare troppo coriacee. Tale pianta è molto conosciuta ed apprezzata fin dall’antichità per il suo buon sapore dolce e delicato che la rende adatta a svariati usi in cucina. Può essere infatti usato per preparare delle frittate, dei risotti o delle zuppe e si può consumare anche crudo in insalata.

 

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Valerianella (Valerianella locusta)

valerianella

è una pianta edibile oggi coltivata anche su larga scala. In Friuli viene chiamata ardielùt, argelùt, argjelut, lardielùt. L’intensità di sapore e la consistenza delle foglie delle piante coltivate non sono eguagliabili a quelle della stessa specie cresciute allo stato spontaneo.

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Tarassaco (Taraxacum officinale)

tarassaco

è una pianta erbacea ubiquitaria nota con i nomi di radicèla, ridicèla, pissecìan, lidrichesse. Tutte le parti della pianta sono commestibili e buone. Le foglioline giovani da crude si possono aggiungere nelle insalate miste. Le giovani piantine intere e le rosette basali vengono generalmente consumate lessate e poi condite con olio extravergine di oliva, oppure saltate in padella con un soffritto di guanciale, pancetta o lardo. Con i bottoni floreali immaturi vengono preparati i “capperi friulani”, scottati nell’aceto e vino e poi conservati sott’olio. I fiori si possono preparare in pastella e fritti oppure possono essere utilizzati per preparare una bevanda simile al vino verduzzo.

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Ortica (Urtica dioica)

ortica

è una pianta ampiamente diffusa che si ritrova lungo le siepi, nei viottoli, vicino alle case, soprattutto nelle zone ombrose. Possiede una peluria che, quando toccata espelle un fluido che causa bruciore e prurito a uomini e animali, e per tale ragione è denominata urtie, urtia. I germogli e le foglie ancora tenere si raccolgono in primavera, prima della fioritura e la cottura distrugge i peli urticanti. Possiede un sapore forte e deciso e viene utilizzata per preparare saporite minestre, frittate e risotti. 

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Papavero (Papaver rhoeas)

papavero

Pianta erbacea annuale molto diffusa in pianura che cresce ai bordi delle strade e delle ferrovie e diventa infestante nei campi coltivati. In Friuli si raccoglie il cespo di foglie che si sviluppa attorno alla radice in primavera, quando la pianta è ancora piccola e ben lontana dalla fioritura. Viene generalmente consumato come contorno bollito e poi saltato in padella, noto sotto il nome di “confenòns”, ma entra anche nella preparazione di gustose frittate, zuppe e risotti. Le foglie della pianta giovane, che non abbia ancora emesso il fusto del fiore, sono ottime da gustare anche crude in insalata.

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Spinacio selvatico o Buon Enrico (Chenopodium bonus Henricus)

spinacio selvatico

Pianta erbacea biennale molto comune che cresce soprattutto su terreni umidi e ricchi di azoto. Si trova infatti sui prati, sui pascoli montani e in prossimità delle malghe. In friulano è conosciuta con i nomi di pêl di mus, scùntic, jerbo da’ farino, gàsala, gàzala. In cucina si utilizzano soprattutto le foglie basali più giovani e tenere che possono essere cotte e condite come spinaci o utilizzate per preparare gustosi ripieni o frittate sfiziose. 

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Radicchio di monte (Cicerbita alpina)

radicchio di monte

Probabilmente una delle piante più conosciute ed apprezzate dell’arco alpino orientale e in particolare delle Alpi Carniche. In friulano è nota come latisùl salvadi, radichesse di mont, lidrìc di mont, radìc di mont, radìc dal ors. Si raccolgono soprattutto i giovani germogli prima che crescano troppo, altrimenti sono inutilizzabili a causa del loro gusto amarissimo (in maggio sono solamente due o tre le settimane utili per la raccolta). I germogli possono essere consumati sia crudi che cotti, in abbinamento con salumi o ricotta affumicata per la preparazione di gustosi antipasti, utilizzati in risotti e frittate, oppure conservati sott’olio previa scottatura in acqua e aceto.

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Aglio orsino o selvatico (Allium ursinum)

aglio orsino

Pianta erbacea, bulbosa, spontanea, perenne e commestibile. In Friuli è conosciuta sotto il nome di ai sàlvadi. In primavera nei sottoboschi può creare vasti tappeti erbosi, il cui profumo è talmente intenso che per tradizione si dica faccia svegliare gli orsi dal letargo. Le foglie sono lunghe e abbastanza larghe, di un bel verde lucente. I fiori sono bianchi riuniti in ombrella in cima allo stelo. In cucina si può adoperare allo stesso modo dell'aglio tradizionale oppure si possono utilizzare le foglie fresche per preparare frittate, risotti ed un pesto molto gustoso.

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Luppolo (Humulus lupulus)

luppolo

Il luppolo è una pianta che cresce spontaneamente lungo i corsi d’acqua e ai margini dei boschi, sia in pianura che verso le montagne. I giovani getti delle piante, generalmente conosciuti a seconda della zona con il nome di urtizzòn, urticjon o bruscandui, vengono raccolti in primavera (da marzo a maggio) ed utilizzati come ingrediente per la preparazione di risotti, frittate o zuppe.

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Pungitopo (Ruscus aculeatus)

pungitopo

Pianta cespugliosa sempreverde diffusa soprattutto nelle zone collinari e boschive. I germogli, raccolti durante il periodo da marzo a maggio, in friulano vengono chiamati ruscolin, sparc di ruscli o sparesi de rust, e consumati in cucina come se fossero asparagi, lessati ed utilizzati come contorno ad uova sode, oppure utilizzati in risotti e frittate. I germogli possono anche essere utilizzati per aromatizzare la grappa.

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Asparago di monte o barba di capra (Aruncus dioicus)

asparago di monte

Robusta pianta erbacea, perenne, fogliosa, alta fino a 2 metri e caratterizzata da fiori profumati. Cresce soprattutto nei boschi umido-freschi submontani e in zone non troppo soleggiate. In friulano è nota come barbe di bec o penàc. I giovani germogli primaverili possiedono un colore rossastro e crescono alla base delle piante facilmente riconoscibili per i resti della fioritura dell’anno precedente visibile sulla sommità della pianta sotto forma di grappolo. I giovani getti, se raccolti per tempo (entro aprile), sono particolarmente indicati per preparare frittate, zuppe, risotti o per essere conservati sotto’olio. 

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Asparago spinoso (Asparagus acutifolius)

asparago spinoso

Pianta arbustiva, sempreverde perenne che cresce molto abbondantemente nelle zone Carsiche e nelle zone Marittime. La parte commestibile è costituita dai giovani germogli o turioni (sparc salvadi) che vengono generalmente consumati lessati ed accompagnati ad uova sode o utilizzati per fare risotti e frittate.

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CINQUE ERRORI MORTALI: QUANDO UNO SCAMBIO TRA PIANTE PUÒ AVERE ANCHE UN ESITO FATALE

Come già accennato molte piante commestibili assomigliano o possono esser confuse con piante velenose o tossiche. Prima di imparare a riconoscere erbe, bacche e piante commestibili è bene quindi imparare a riconoscere quelle piante che, a seconda delle circostanze, stadi di sviluppo, uso improprio o quantità ingerite, possono avere effetto tossico se non addirittura in certi casi letale.

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Aconito scambiato al posto del radicchio di monte

aconito

L’Aconito (Aconitum napellus) è una pianta perenne ampiamente diffusa nelle zone montagnose delle Alpi. L’aconito si riconosce facilmente per le foglie fortemente incise e per il tipico pennacchio di fiori blu-violetti o gialli, ma un occhio poco esperto potrebbe confonderlo con il radicchio di monte (Cicerbita alpina).

L’aconito è una delle piante più tossiche della flora italiana: tutte le parti della pianta contengono alcaloidi particolarmente tossici che agiscono sul sistema gastroenterico, cardiovascolare e sul sistema nervoso centrale e periferico.

 

L'ingestione accidentale di dosi di aconitina inferiori ai 6 mg è sufficiente a causare la morte di un uomo adulto. L’intossicazione è molto rapida e si manifesta con una combinazione di sintomi cardiovascolari (palpitazioni, difficoltà di respiro, ipotensione, bradicardia, tachicardia, aritmia ventricolare, edema polmonare), sintomi gastroenterici (nausea, vomito, salivazione abbondante, dolore addominale, diarrea) e disturbi sensoriali e motori (comparsa di prurito e formicolio che dalla bocca si estende a tutto il volto e poi dalla punta delle dita progredisce lungo gli arti con tendenza ad estendersi a tutto il corpo fino alla completa anestesia, ottundimento della sensibilità degli organi di senso, agitazione psico-motoria, morte per paralisi respiratoria).

Fenomeni di irritazione e intossicazione lievi si possono verificare anche solo toccando la pianta poiché i principi attivi possono essere assorbiti anche attraverso la pelle.

Casi di avvelenamento del bestiame sono stati riportati anche dalla medicina veterinaria tuttavia in genere gli animali imparano a selezionare ed evitare di assumere le piante tossiche.

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Colchico autunnale confuso con lo zafferano o con l’aglio orsino

colchio

Il colchico o falso zafferano (Colchicum autumnale) è una pianta erbacea autunnale, velenosa, caratterizzata da vistosi fiori color rosa-violetto. A differenza del commestibile zafferano vero (Crocus sativus), pianta della famiglia delle Iridaceae, il colchico autunnale della famiglia delle Liliacee, è velenoso e contiene l’alcaloide colchicina.

Il colore violetto di entrambi i fiori può portare a confondere le due piante, tuttavia il vero zafferano non cresce quasi mai nel Nord Italia e presenta tre stami, o stigmi, mentre il colchico autunnale ne ha sei.

La colchicina presente nel falso zafferano, in dosi farmacologiche esplica proprietà antiinfiammatorie, ma se la pianta viene accidentalmente ingerita può comportare una grave un’intossicazione con esito fatale se non riconosciuta in tempo. Tra i sintomi causati da questo alcaloide si citano bruciore alla bocca, nausea, vomito, diarrea sanguinolenta, aumento della frequenza cardiaca e dolori toracici. I primi sintomi compaiono in maniera precoce, già dopo 2-5 ore dall’ingestione della pianta, mentre dopo 24 ore si ha insorgenza di febbre e insufficienza epatica e renale.

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Foglie del colchio scambiate per aglio orsino

allium

In primavera un altro errore assolutamente da evitare è quello di scambiare le foglie del colchico o falso zafferano con quelle dell’aglio orsino. Le foglie dell’aglio orsino, oltre ad essere caratterizzate da un forte odore di aglio, sono peduncolate ed emergono dal suolo individualmente con uno stelo fine che si distingue chiaramente dalla foglia di forma ellittica. Le foglie del colchico sono sessili, crescono direttamente dal tubero senza stelo, hanno forma lanceolata e sono inodori. L’aglio orsino infine si può confondere anche con le foglie del mughetto (Convallaria majalis): queste presentano però una forma lanceolata, sono prive di gambo e si diramano direttamente dal fusto centrale della pianta inguainandolo lungo la sua altezza. Le foglie del mughetto presentano un elevato contenuto di glicosidi ad attività cardiotonica; l’avvelenamento per ingestione accidentale di tali foglie si manifesta con dolori addominali, nausea, vomito, disturbi cardiaci che se non curati al più presto possono evolvere fino al coma e alla morte. 

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Mandragora scambiata per borragine

mandragora

La mandragora (Mandragora autumnalis) è una pianta perenne, appartenente alla famiglia delle Solanaceae, la cui radice raggiunge dimensioni notevoli (fino a 60 centimetri e oltre) ed ha una caratteristica forma ramificata ed antropomorfa. Le foglie sono di colore verde intenso, hanno un aspetto vagamente “bietoloso” con bordo ondulato e con nervatura centrale molto marcata e sono disposte a formare una rosetta centrale dalla quale, in autunno, si forma un’infiorescenza di fiori imbutiformi a cinque lobi di un azzurro violetto intenso e luminoso. La fioritura è molto lunga e si protrae per tutto l’inverno. I frutti sono bacche ovoidali di colore giallo aranciato, la cui dimensione varia dai 2 ai 4 centimetri.

Nel passato sono state attribuite numerose proprietà magiche alla mandragora, che ancora oggi è conosciuta nella tradizione popolare come una delle “erbe delle streghe” e che veniva usata a scopo lenitivo, analgesico, anestetico, afrodisiaco ed allucinogeno.

La tossicità della mandragora è dovuta al suo contenuto di alcaloidi tropanici. Fra questi i principali sono rappresentati da L-iosciamina, atropina e scopolamina. Tali alcaloidi sono in grado di produrre effetti tossici a carico di diversi organi e distretti (sistema nervoso centrale, apparato gastroenterico, sistema cardiovascolare, etc..). La sintomatologia dell’avvelenamento da mandragora è caratterizzata dalla comparsa di secchezza delle fauci, visione offuscata, aumento della temperatura corporea e del ritmo cardiaco, sonnolenza, vertigini, mal di testa, confusione mentale, delirio ed allucinazioni. Nei casi più gravi, l’ingestione di mandragora può portare al coma e perfino alla morte.

Occorre quindi prestare molta attenzione a non scambiare per mandragora la borragine (Borago officinalis), una pianta erbacea commestibile e che viene utilizzata per la preparazione di minestre, frittate, risotti e ripieni per ravioli. La borragine è una pianta ramificata, con fusto spesso e peloso, che può raggiungere i 50 centimetri di altezza. Le sue foglie sono dure, ovali, di colore verde scuro, con i margini ondulati e ricoperte da una fitta peluria. I fiori di colore blu- violetto intenso sono piccoli, disposti a grappolo e a forma di stella.

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Belladonna scambiata per mirtillo

belladonna

La belladonna (Atropa belladonna) è la più famosa e conosciuta tra le “erbe delle streghe”: a causa delle allucinazioni e dei disordini psicomotori (movimenti stereotipati di danza, risa, urla e sensazione di levitazione) che si manifestano in chi la ingerisce si pensa infatti che i riti satanici dei sabba delle streghe fossero il risultato dell’assunzione di belladonna.

Il nome di tale pianta presenta un chiaro riferimento ad Atropa, una delle Parche della mitologia greca a cui era affidato il compito di recidere il filo della vita, proprio per ricordare come l'ingestione delle bacche di questa pianta spossa risultare letale. L’epiteto comune belladonna deriva invece dall’uso cosmetico che le dame del rinascimento facevano di questa pianta: il succo delle bacche veniva infatti usato per migliorare il colorito del viso e per dilatare le pupille dando risalto e lucentezza gli occhi (effetto noto con il termine di midriasi e dovuto al principio attivo atropina che è stato isolato dalla pianta in epoca ben più recente).

L’intossicazione da belladonna è caratterizzata da una prima fase eccitatoria e allucinatoria a cui seguono i classici sintomi dell'avvelenamento muscarinico: dilatazione delle pupille, secchezza delle fauci, rossore cutaneo, disturbi cardiocircolatori e infine paralisi respiratoria. Gli effetti tossici della belladonna sono dovuti alla presenza di alcaloidi tropanici (atropina, scopolamina, iosciamina) che vengono sintetizzati nelle radici e poi traslocati nel resto della pianta, soprattutto in frutti e semi, come avviene in molte delle piante appartenenti alle Solanaceae.

La pianta di Atropa belladonna presenta un fusto robusto e ramificato e raggiunge un’altezza compresa tra i 70 e 150 cm. Le foglie sono lunghe anche 15 cm ed hanno una forma lanceolata. I fiori sono piccoli, penduli ed hanno un colore violaceo e una forma a calice. Il frutto è una bacca nera, lucida, con molti semi e contornata da un calice aperto a stella. La maggior parte degli avvelenamenti da belladonna si riscontra a carico dei bambini, che non conoscendo la pianta ne assaggiano le bacche confondendole con i più comuni frutti del sottobosco. Ad aggravare la probabilità d’ingestione, vi è anche il fatto che, sorprendentemente per un frutto contente alcaloidi, non ha sapore spiccatamente amaro.

La pianta di mirtillo (Vaccinum myrtillus) è un piccolo arbusto con foglie caduche che si allarga più in orizzontale che in verticale raggiungendo un’altezza massima tra i 20 e 60 cm, caratterizzato da una crescita molto lenta. Il frutto del mirtillo è costituito da una bacca globosa, carnosa e succosa, di colore blu-violaceo tendente al nero. La polpa interna è chiara ed ha un sapore gradevole e leggermente acidulo.

Il frutto del mirtillo non deve essere confuso, oltre che con le bacche di belladonna, con la bacca della cosiddetta “uva di volpe” (Paris quadrifolia), pianta tipica dei sottoboschi umidi caratterizzata dall’avere quattro foglie ovali unite a formare una forma di stella piana all’apice di un fusto alto 20-30 cm. Al centro delle quattro foglie spunta prima il fiore, poi il frutto: una bacca nero-bluastra di circa 1 cm di diametro che assomiglia ad un grosso grano di uva, da cui il nome della pianta. Tutta la pianta è velenosa e contiene diverse sostanze tossiche (tra cui i glucosidi paridina e paristifina), ma l’ingestione di bacche in particolare determina una sintomatologia seria e dolorosa, caratterizzata da dolori gastrici, colici e angoscia.

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Veratro scambiato per genziana

veratro

Il veratro (Veratrum album) è una pianta perenne alta fino a 150 cm, con rizoma corto e carnoso. Tutta la pianta, in particolare il rizoma, risulta velenosa sia per l'uomo che per gli animali al pascolo per il suo elevato contenuto in alcaloidi tossici (protoveratrina, protoveratridina, germerina, jervina, pseudojervina, rubijervina), resine e acido chelidonico. L’avvelenamento da veratro nell’uomo è generalmente riconducibile al consumo di liquori casalinghi preparati con le sue radici anziché con le radici aromatiche e amare della genziana (Gentiana lutea).

La somiglianza tra le due piante è effettivamente notevole e le possibilità di confonderle è aggravata dal fatto che tali piante condividono lo stesso habitat e crescono su prati e pascoli montani tra i 1000 i 2000 metri d’altitudine. Per distinguere le due piante occorre osservare in particolare la disposizione delle foglie sul fusto: quelle del veratro sono alterne (ovvero sono disposte ciascuna a livelli differenti rispetto alle altre), mentre quelle della genziana sono opposte (cioè sono inserite sul fusto a due a due, allo stesso livello, l'una di fronte all'altra). Inoltre il veratro ha fiori verdi o biancastri, mentre la genziana ha invece fiori gialli punteggiati di bruno. Il rischio di confondere le due piante aumenta in autunno, momento adatto per la raccolta della radice, quando le piante sono ormai appassite: in questo caso occorre osservare le radici che nel veratro appaiono a ciuffo corte e sottili, mentre nella genziana sono costituite da un lungo rizoma cilindrico giallo chiaro.

I sintomi principali di intossicazione da veratro sono costituiti da bruciore alla bocca e alla gola, difficoltà di deglutizione e di respirazione, abbondante salivazione, nausea, vomito, diarrea, dolori colici, vertigini, cefalea, mancanza di forze. Nei casi più gravi rallentamento del polso, che si fa sempre più debole, ed infine paralisi respiratoria. La morte sopraggiunge, di norma, entro le dodici ore.

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Come comportarsi in caso di sospetta intossicazione

In caso di sospetta ingestione di piante spontanee velenose occorre evitare manovre azzardate o comportamenti scorretti che potrebbero trasformare un’intossicazione acuta, facilmente risolvibile se riconosciuta e trattata tempestivamente ed adeguatamente, in una tragedia ad esito fatale.

Qui di seguito si riporta schematicamente cosa fare e non fare in caso di sospetta intossicazione.

Cosa non fare:

  • Diffidare di sedicenti persone esperte che si propongono per il riconoscimento della pianta: l’identificazione con il nome botanico della specie ingerita è fondamentale per valutare correttamente il rischio tossicologico in caso d’ingestione di una specie vegetale velenosa. Per le piante selvatiche in caso di dubbi occorre rivolgersi ad un esperto botanico.
  • Non provocare il vomito: provocare il vomito per eliminare parte del vegetale ingerito può essere pericoloso, perché può accadere che i pezzetti di foglia o di frutto vomitati vadano di traverso provocando il soffocamento o, nel caso di vegetali contenenti sostanze irritanti, si verifichi un peggioramento delle lesioni a causa del doppio contatto con le mucose.
  • Non bere latte: è credenza popolare che il latte rappresenti un antidoto universale e riesca ad agire inattivando tutte le sostanze tossiche. Ciò non è vero! Anzi nel caso di sostanze tossiche solubili nel grassi, l’assunzione di latte ne facilita l’assorbimento e quindi il progredire dell’intossicazione.
  • Non attendere la comparsa dei sintomi se si sospetta l’ingestione di una pianta tossica: tra il momento dell’ingestione e la comparsa dei primi sintomi di intossicazione trascorre di solito un certo intervallo di tempo ed è proprio sfruttando tale periodo di latenza che possono essere evitate le conseguenze più gravi. Se si sospetta l’ingestione accidentale di una pianta ignota o tossica, oppure compaiano i primi sintomi anche in seguito all’ingestione di vegetali ritenuti commestibili, non aspettare ma intervenire rapidamente recandosi in ospedale e/o telefonando ad un centro antiveleni.

Cosa fare:

  • Chiamare subito un centro antiveleni: Se vi è il dubbio di aver ingerito una pianta pericolosa chiamare subito un centro antiveleni. Ad esempio il Centro Antiveleni (CAV) di Milano è attivo 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno chiamando il numero 02-66101029. Se non si conosce il nome scientifico del vegetale, fotografarlo e, previo contatto telefonico, inviare la foto tramite sms, mms o e-mail al CAV, che provvederà a farlo riconoscere.
  • Assumere carbone attivo: l’assunzione di carbone attivo può prevenire l’assorbimento dei principi attivi tossici eventualmente presenti nel vegetale ingerito. Tenere in casa del carbone attivato in polvere può quindi essere di aiuto. L’assunzione deve comunque avvenire su indicazione specifica dopo consultazione telefonica con il CAV.
  • Recarsi quanto prima al Pronto Soccorso:  se possibile portare una o più porzioni del vegetale ingerito e/o una fotografia presso il Pronto Soccorso più vicino. Se come sintomo si è verificato il vomito, conservare il materiale e portare anch’esso al Pronto Soccorso.
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ultima modifica: 5 aprile 2018 Commenti / Suggerimenti